Lacrime artificiali – future is a glass of water

Questo racconto di Chiara Baldin lo potete leggere anche qui 
ma gli mancheranno dieci righe, per un fatale errore. 
Queste dieci righe ora ci sono, e voi potete leggerle.


Quando nuoto dimentico casa quartiere futuro mio babbo il mondo
e mi dimentico
dovevo nascere pesce.
Sergio Atzeni, Bellas Mariposas

Ecco, lo sapevo. Il solito problema che si presenta a pochi minuti dal via: mi si appannano e ho il terrore che imbarchino acqua. Ora come faccio? Chiamo il mister? Lecco. Dentro. Soluzione collosa ma ottimale.
Ho messo il costume di gara. Persino le goccioline lo temono. Mesi fa il mister mi aveva detto che più il costume è idrorepellente più si nuota veloci: luisìchenesa. Magari mi sono solo lasciata suggestionare ma ora in acqua, con quello nero, io spacco e Marti non riesce mai a toccarmi i piedi durante l’allenamento. Dovevo nascere pesce.
A volte, quando sono in acqua, mi immagino di avere le squame e riuscire a respirare attraverso le orecchie. Unisco gambe e braccia, come se fossero un tutt’uno. Mi immergo e inizio a oscillare dando un colpo di reni e di piedi che, fusi, sembrano formare la mia pinna. Immagino di galleggiare nell’acqua, sprofondare piano piano e non risalire. Più. In acqua si sciolgono i pensieri e le mie preoccupazioni quotidiane. Vorrei rimanerci all’infinito… salire qualche volta per salutare papà e mamma. E poi ritornare giù. Mi sento in pace, libera, soprattutto da sguardi invadenti e voci arroganti. Resto in apnea… quella che riempie lentamente occhi, bocca, polmoni e si spande in tutto il corpo: in quel momento, oltre al cuore che batte non c’è altro in me che vive. Trattengo il fiato, non entra aria, mi guardo intorno e vedo superfici a scacchiera, tocco immobile l’acqua bagnata e liscia, oscillo e mi rendo conto che… ho bisogno di respirare. Risalgo, il cervello mi scoppia: manca poco, boccata d’aria. E torno a vivere. A quanto pare non sono pesce.
A proposito: dov’è papà?! Tribuna sinistra… eccolo, muove il braccio. Sembra più agitato di me, come sempre. Gli sorrido: devo fargli capire che ce la posso fare. Ormai ho quattordic’anni e qualche anno di gare alle spalle: non sono più una bambina, pa’.
Meno male che c’è lui, che crede in me più di ogni altra persona. Lui che confida nei miei sacrifici e nella mia voglia di entrare in acqua tutti i giorni. Devo migliorare, devo togliere almeno un secondo dal mio record: fargli vedere che posso farcela, non posso deluderlo.
Sono qui, davanti alla corsia che ora mi accoglierà per un minuto. Uno dei più importanti minuti della mia esistenza. Ore intere di allenamento, settimane, mesi concentrati in una settantina di secondi immersi nell’acqua. Devo plasmarmi di quell’acqua per diventarne parte e schizzare.
Centoventi secondi d’aria prima di entrare in apnea e mi si incastrano mille pensieri: riavvolgo la fatica e l’energia, i sacrifici di ogni giorno, le delusioni e gli sguardi soddisfatti del mister. Come se in testa avessi la pellicola di un film vissuto e rivissuto. Bevo. Mi tremano le gambe.

«Invitiamo gli atleti dei 100 dorso ad avvicinarsi alle corsie: […] Alessi Anna corsia numero 4, …»

Cazzo. E gara sia. Scoppio di adrenalina. Ho paura, ma non vi temo. Guardo papà. Meno male che c’è lui…
Spingimi, sollevami: aiutami tu, acqua.

Ad Anna A.

Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.

H. Murakami, Kafka sulla spiaggia

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