Non sentirsi più soli: la poesia di Irene Paganucci

Talvolta, a parlare di poesia, si fa fatica. Non è mai perché si tratta di poesia brutta, perché di poesia brutta, tolta quella fatta in malafede, non ce n’è, è tutt’altra la questione. Alle volte si fa fatica a parlare di poesia perché la poesia ti si presenta davanti, ed è completa, ed è immediata, e la senti amica subito, e allora perché ricamarci sopra, che poi magari tu sei lì a parlarne e riparlarne, quando invece magari la poesia ti ha bussato alla porta per compensare tanti giri di parole e farti godere un beato silenzio di grazia?

La poesia di Irene Paganucci, giovane poetessa lucchese, mi è capitata tra le mani sotto forma di un magro libriccino bianco dalla copertina piacevolmente ruvida al tatto, con un titolo ruvido anche quello: Di questo legno storto che sono io.

Di questo legno storto che sono io
non ridere, amore, è questo soffiare
del vento è tutta la furia del tempo.

Si apre così questo piccolo e tenace libro, con un preciso monito che suona anche come un monito al lettore, il quale percepisce da subito una dolce umiltà di fondo che  ci accompagna in ogni verso fino alla quarta di copertina.
Non pecca di vanità, mai. E i poeti alle volte tendono a farlo: siamo creature vanitose, alle volte; veri palloni gonfiati, spesso. Nessuna paura tra queste pagine, nessun rischio di incappare in un’autocelebrazione alle spese del povero e coraggioso lettore di poesia. A proposito di questo, ecco qual è la vera poesia brutta, quella scritta per nutrire il proprio ego. Zozzeria.

Ma torniamo a Irene. Ho letto il suo libro per la prima volta in treno, andando a lavorare.
Sono poesie d’amore, ma il tema non è l’amore. Più che l’amore, il libro indaga gli interstizi lasciati dall’amore, è un elogio alle gestualità, un prontuario di intimi rituali che salta con disinvoltura tra l’amore presente e attuale e l’amore passato ma attuale comunque, in barba alla vita, che fa quello che vuole.

Si fa presto a dire che uno il destino
se lo sceglie, se lo decide, ma io
mica l’ho scelto, mica l’ho deciso
questo finale da romanzo, questo
somigliare a quel giovane d’un Caulfield
che si chiede dove se ne vanno
le anatre di Central Park, d’inverno;
che mi chiedo dove sei migrata.

In effetti la continuità è tanto palpabile che sembra di leggere un romanzo, una piccola autobiografia in versi dai toni smarriti, che sanno diventare risoluti e ironici, pervasi da una familiare malinconia e dal quotidiano esercizio d’amore che fa bene al cuore almeno quanto lo logora.

La poesia di Irene risulta immediatamente vicina perché la sua sincerità non ha mediazione sintattica, il linguaggio è quello delle quotidiane occasioni, i sentimenti che esprime sono spaventosamente condivisibili. Non si tratta tuttavia di banalità, ed è questo il suo grande potere: parla di consuetudine svelando un ampio spazio di sfumature in uno spazio che si credeva già saturo.

Non ti piace quando muta il colore
delle guance, il mio nascondermi dietro
un qualche orizzonte, una linea, un tic
del viso, ma arrossire e andarmene
è la mia specialità e poi mi sembra
che sono una cosa un po’ eroica tipo
un tramonto.

Io sono devoto a questo cristallino esercizio poetico. Il libro si consuma con avidità e, quando arrivi alla fine, è un sincero dispiacere. Pensi che in fondo se ce ne fosse stata un’altra l’avresti letta volentieri.
Ma, del resto, la poesia è così: magari fai fatica a mettertici, ma quando ti piglia c’è ben poco da fare. La sua inesauribile Verità è ipnotica per qualsiasi animo bisognoso su questa Terra piena di domande. E Irene Paganucci, con questa sua prima promettente opera, risponde. Con forza, con amore, con sincera fratellanza.
Il treno arriva alla stazione di Venezia con il consueto ritardo, incubo del pendolare. Le parole dell’ultima poesia così come la prima esortano all’attenzione, e lasciano l’amaro in bocca per la consapevolezza che riportano in superficie, dietro l’angolo: semplice, così vicina che ti vien da chiederti com’è che l’avevi ignorata, povero legno storto.

Non portarmi al cinema
la domenica pomeriggio –
ti prego – sarà questo
entrare col sole
e uscire che è notte.
Sarà questa storia
che tutto finisce.

*

Due righe di biografia
Irene Paganucci è nata a Castelnuovo di Garfagnana e vive a Lucca. Laureata in Scienze Politiche, attualmente studia Sociologia e politiche sociali. Di questo legno storto che sono io è la sua prima pubblicazione.

Irene Paganucci, Di questo legno storto che sono io, Milano, Marco Saya Edizioni, 2013 (40 pag., 7 €).

Comments
3 Responses to “Non sentirsi più soli: la poesia di Irene Paganucci”
  1. poesiaoggi ha detto:

    L’ha ribloggato su poesiaoggi.

  2. Clèr ha detto:

    Amo molto il titolo

scrivici che ne pensi

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