Iqrit, il villaggio fantasma – Al di la’ del check point

di Alessandro Belotti

 

Mentre scrivo sono seduto laddove un tempo sorgeva una scuola. Di quella stessa istituzione scolastica, che tutti abbiamo frequentato nella nostra infanzia, non rimane che un cartello. Mi trovo ad Iqrit, un villaggio arabo-cristiano situato a 25 chilometri da Akko e raso al suolo dall’esercito israeliano nel 1951, a pochi anni di distanza dalla fondazione dello Stato di Israele. Dalla collina su cui si erge la chiesa, unico edificio “graziato” dall’esplosivo israeliano, si vede il Libano, terra verde ma rossa di sangue, analogamente a quella d’Israele. Proprio qui ad Iqrit, coloro che vi abitavano prima dello sgombero forzato e i loro discendenti, si ritrovano una volta al mese per pregare, in quanto la considerano ancora casa loro, sentono che le loro radici appartengono a questo luogo, dove un tempo c’era vita mentre oggi soltanto sassi. Grazie a loro, il cuore di questo paese  pulsa ancora e questa è una di quelle cose che nemmeno la crudeltà umana potrà mai distruggere. Il parroco di Iqrit mentre mi racconta la drammatica storia del villaggio, mi indica da un lato il confine con il Libano e dall’altro il cimitero, l’altro luogo rimasto intatto che è diventato un simbolo assai triste della loro condizione di esuli. “Possiamo tornare qui solo da morti”, mi confida sorridendo mentre i suoi occhi trasudano tristezza. Le sofferenze di questa popolazione sono state indicibili, eppure hanno avuto la forza di andare avanti, di ricostruirsi una vita altrove per assicurare un futuro ai loro figli: non dimenticano, né tantomeno si rassegnano a non veder mai applicata quella giustizia terrena che pur gli aveva dato ragione.

 

Mi ha colpito molto la determinazione, l’attaccamento alla terra e anche la grande dignità con cui questa gente ha affrontato uno dei drammi peggiori per una popolazione e per qualsiasi essere umano: quello di essere scacciati dalla propria casa. Persino le foto di come si presentava il villaggio prima della sua distruzione sono rare, perchè l’evacuazione è avvenuta in tempi molto rapidi e i soldati avevano assicurato loro che sarebbero potuti tornare dopo solo 15 giorni: sono passati, invece, 60 anni. Gli abitanti però, non fidandosi solo della parola degli ufficiali dell’esercito israeliano, chiesero che quel patto venisse messo per iscritto: proprio quelle carte hanno costituito una prova inequivocabile nel processo con il quale la popolazione di Iqrit chiedeva il rispetto dei propri dirittti. Nel 1951 infatti, la Corte suprema israeliana riconobbe alla popolazione di Iqrit il diritto a fare ritorno alle proprie case, dopo che, tre anni prima, erano stati scacciati per “motivi di sicurezza”. Il governo doveva quindi autorizzare gli abitanti a fare ritorno, ma decise di provvedere in altro modo, ovvero autorizzando l’esercito a radere al suolo il villaggio. Iqrit è divenuto un simbolo dei soprusi subiti dai palestinesi dal 1948 ad oggi e il cartello all’entrata del villaggio è esemplificativo in questo senso: “Benvenuti a Iqrit, giustizia per Iqrit”. Non vogliono dimenticare, chiedono soltanto giustizia per quello che gli è stato fatto. E io sono con loro.

 

 

Alessandro Belotti ci racconta, ogni lunedì, cosa significa attraversare una barriera, un confine, un cambiamento. Ci racconta il check point e quello che si trova al di là di esso.

 

 

 

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